Abstract
Fra i giochi praticati dagli antichi Greci la pesseia, ossia gioco/giochi da tavolo con ciottoli-pedine, presenta a mio avviso uno statuto del tutto particolare. Se le fonti erudite ne trattano insieme a una serie di altri giochi e quindi ne certificano la natura ludica, va però detto subito che in età classica autori del calibro di Gorgia, Platone e Alcidamante ne associano l’invenzione a quella di attività apparentemente molto più “serie” e prestigiose: il calcolo, la guerra, le leggi, le lettere dell’alfabeto, e così via. Su una linea un po’ diversa, che ne riconosce a un tempo stesso la serietà e il carattere giocoso, si pone un frammento di Sofocle: la pesseia vi compare come «piacevole cura dell’ozio», posta fra le «sapientissime attività» che occupano i tempi morti della guerra. Queste parole rimandano immediatamente a un tema iconografico molto diffuso in età tardo-arcaica: due guerrieri, spesso alla presenza di Atena, sono raffigurati nell’atto di sfidarsi con le pedine e appaiono di solito completamente assorbiti dal gioco, come avviene nella celebre coppa di Exechias che rappresenta la sfida fra Achille e Aiace armati di tutto punto e concentratissimi. Le testimonianze iconografiche e letterarie concordano quindi nel rimandare a un “gioco serio”, degno della massima considerazione e patrocinato dalla stessa dea della sapienza. Negli studi, questo punto è rimasto sostanzialmente in ombra, almeno fino al volgere del millennio. A partire da un passo della "Repubblica" di Platone, cercherò qui di cogliere alcune caratteristiche importanti e inesplorate di questo “gioco serio”, che si rivela importante per la definizione stessa della dialettica platonica.