Abstract
Nel breve spazio del presente lavoro, intendo dar conto dell’“habitus teologico” che caratterizza lo stile filosofico di Alasdair MacIntyre : “religiously musical” è infatti — a mio avviso — il più insolito, e allo stesso tempo il più suadente, epiteto attribuito al filosofo scozzese dai teologi James Gustafson e Stanley Hauerwas. Tale habitus è altresì esaltato dalla diffusa propensione a saldare insieme — senza apparente soluzione di continuità — il modus philosophandi macintyriano e alcune recenti figure della teologia cristiana post–liberale e post–moderna, di cui ci occuperemo in seguito: soprattutto la “teologia narrativa” di Hans Frei, George Lindbeck, et. al., ma anche la “radical orthodoxy” di John Milbank, Catherine Pickstock, Graham Ward, et. al. Sebbene MacIntyre non abbia replicato direttamente a simili tentativi di “appropriazione teologica” del suo pensiero, ritengo, comunque, che i tempi siano maturi per riconoscere — a lui e al “tomismo analitico” — un ruolo sui generis nell’evoluzione della tradizione aristotelico–tomista del XX secolo : ruolo distinto, ma non separato, rispetto a quello coevo di quanti — in ambito continentale — hanno tenacemente proseguito la ricerca filosofica e teologica nel solco di Tommaso, come ad esempio Marie–Dominique Chenu, Yves Congar, Cornelio Fabro, Etienne Gilson, Jacques Maritain, Edith Stein, et al.